Ed io me la portai allo stagno
credendo che fosse donna,
invece aveva solo una tuta
per allenarsi a mentirsi.
Furono notti e furono giorni
e quasi di teatro
si spensero le strade
e si accesero le stanze.
Dopo ogni sipario
toccai i suoi seni turgidi
e fui il proscenio
del suo fiore di rosa.
Il filare del suo perizoma
mi cantava nei sogni
come un’arpa di lana
affumicata di camino.
Senza più stelle sui rami
si sono erti i limoni
e uno stormare di fenicotteri
piuma volato da quello stagno.
Pettinati i roseti
di spine e di petali,
nelle sue chiome granate
carezzai il covone di trebbia.
Vissi il nodo dell’abito in festa.
Lei si spogliò solo di festa.
Io ogni lama d’impazienza.
Lei i suoi occhiali da sole.
Orchidee e posidonia
non hanno pelle così carnosa
e i pianeti dinanzi alla luna
non hanno il raggio dei suoi occhi.
Le sue gambe mi cavalcarono
di soma di puledra insazia,
persa di galoppo pieno,
persa di briglie sciolte.
I miei passi spumarono d’onda
il più bel letto del mare,
ricco di sale che luccica al sole
e che sa di saliva di cielo
baciata di terra.
Non dirò mai i suoi sussurri
nè le parole di note dei suoi sguardi.
I chiaroscuri del sogno
li volano via con lo stagno.
Ormata di labbra e di battigia,
feci della sua serra il prato del profumo.
E le farfalle aleggiavano
lo spessore delle rondini.
Fui ciò che vissi.
Come un nomade innamorato.
Le regalai il sapore del deserto
bagnato dal mio mare immenso
e non attesi che il suo amarmi.
Perchè mi disse la donna
quando la portai allo stagno
che non era più una bambina.
E invece aveva solo una tuta
per allenarsi a mentirsi
e scomparve così
tra i suoi fumi di stagno.
francesconigri©11.09.2013
* in onore di Federico Garcia Lorca
ne “La sposa infedele”